di Alfio Pegaso
a) I Due
Topi d’una scena pittorica jaina
I Jaina, c’insegna il Gandhi (1), hanno la buona abitudine di
dipingere scene edificanti per il loro culto sulle pareti delle sale d’accoglienza che essi costruiscono qua e là
ove il jainismo si è diffuso per il tramite dei loro monaci itineranti. Tali dipinti costituiscono un’illustrazione
didascalica a livello visivo dei sermoni allegorici che i maestri sono soliti
rivolgere loro. In una di tali pitture è
rappresentato uno speciale apologo concernente un terribile elefante ai bordi
d’un pauroso pozzo. Due topi, uno bianco
e l’altro nero, vengono raffigurati nell’atto di rosicchiare il tronco d’un
albero che con un suo ramo sostiene un uomo sospeso nel mezzo di detto
pozzo. L’enorme elefante è intento a
scuotere l’albero con la sua ampia proboscide, cercando cosí di far scendere a
terra l’uomo che evidentemente vorrebbe azzannare. Lungo le pareti del pozzo, tuttavia, quattro
serpenti minacciano il malcapitato sibilando paurosamente e stanno quasi per
morderlo; intanto un quinto serpente, assai piú grosso, si erge dal fondo del
baratro con la sua spaventosa bocca spalancata.
Su un altro ramo dell’albero, sopra la testa dell’uomo, s’intravede un
favo di miele con uno sciame d’api che ne sta a guardia. Gli sforzi dell’elefante hanno tuttavia avuto
l’effetto indiretto, scuotendo la pianta, di far colare giú il miele. Un monaco biancovestito (śvetāmbara)
è ritto su un lato del pozzo, dalla parte opposta a quella del pachiderma (da
cui significativamente non sembra temere alcunché), come per aiutare il
poveretto sospeso nel vuoto ad affrontare al meglio tutti i pericoli
incombenti. Ma, spiega il Gandhi
riferendosi all’ampliamento della scena fornitogli oralmente dal padre su
richiesta del figlio, quell’uomo rifiuta di farsi aiutare (2); perché, essendo la sua presa
salda, non teme né le serpi né l’elefante e preferisce al momento godere il
nettare che scorre nella sua bocca, essendo peraltro convinto che i topi ci
mettano un bel po’ a rodere la pianta.
Non è nostro compito delineare ivi una
precisa interpretazione dell’apologo, che a grosso modo ritrae comunque la
situazione umana prima d’aver raggiunto la condizioni spirituale di
salvazione. Forse il Nettare gocciolante
è un’immagine dei pochi piaceri dell’esistenza quali l’amore e le Api sono gli
uomini intenti a produrlo, ovvero i sapienti; probabilmente la Giungla è il
Divenire, l’Elefante è la Morte, il Pozzo gl’Inferi ed i Cinque Serpenti i
fantasmi dell’Aldilà o per meglio dire i Grandi Elementi (scr.Mahābhūta) che condizionano
il cosmo. Impossibile tuttavia non
metter in relazione la coppia di roditori con le due periodiche fasi temporali:
rispettivamente, il Ciclo Ascendente e il Ciclo Discendente dell’Anno Sacro, a
partire ovviamente dai Solstizî. Sebbene in ambito jaina, a differenza che in
quello hindu, l’accento sia posto in campo etico anziché rituale (3).
Onde i Due Topi sarebbero piú correttamente da interpretare come le Due
Metà del mese lunare indiano, vale a dire la quindicina chiara e l’oscura. Il topo chiaro per tal associazione
emblematica con la fase di crescita mensile ed annuale è divenuto alteresí un
simbolo di prosperità, viceversa è avvenuto con l’equivalente roditore di color
scuro. Perché mai, ci si potrebbe però
chiedere, il Tempo (Kāla)(4) è stato immaginato nelle fattezze d’un Muride?
Il motivo è semplice. Esso opera consumando tutti gli esseri,
esattamente come fa il topo che rode dappertutto. La corrosione temporale è lenta ma
inevitabile. Per questo è stata paragonata
giustamente all’azione devastatrice prodotta a poco a poco ma inesorabilmente
dal suddetto roditore. Le derrate
alimentari, ed in particolare i granai, nelle società pre-industriali venivano
infatti prese di mira da parte dei piccoli denti sempre in crescita del topo,
avendo tale bestiola sempre bisogno secondo quanto fa ogni roditore di
rosicchiare in continuazione per limarli.
Nessun animale quindi piú del Topo, a causa della propria insaziabile
voracità, può rimandare emblematicamente all’aspetto distruttore del
Tempo. Il rimando all’aspetto creatore
di Kāla è maggiormente difficile da capire per noi occidentali,
abituati come siamo a disprezzare questo socievole animaletto, nonostante le
fortune avute dal personaggio disneyano di Mickey Mouse (Topolino)
nei cartoon a partire dagli Anni
Trenta o piú tardi da quello nostrano di Topo Gigio nel campo dei
burattini. Esso si collega al fatto che
nell’oroscopo cinese (5) il Topo
equivale pressappoco all’Ariete (6) dell’Astrologia
europea, vale a dire incarna il Raggio Solare, capace di penetrare
ovunque. Con tutta la simbologia
annessa, naturalmente. In altre parole,
potremmo asserire che i 2 Topi costituiscono un’immagine del susseguirsi
alternativo della Luce e delle Tenebre, tenendo conto però che ogni apparente
opposizione su un piano piú profondo raffigura immancabilmente una
complementarietà. Ora vedremo quali
sviluppi ha avuto tale arcaico concetto all’interno prima dell’induismo e poi
del buddhismo. L’allegoria jainista
appena illustrata (7) valga
quale paradigma generale per la comprensione del simbolo, prima ancora che per
una ricognizione limitatamente di carattere storico-iconologico.
b) Il
Sorcio veicolo di Rudra, Gaṇeśa e Kubera
Il Muṣa (Muṣika) è posto in alcune
circostanze accanto a Gaṇeśa/ Gaṇapati, lett. ‘il
‘Signore dei Genî’; precisamente sul lato orientale, in modo tale da svolgere
una funzione arietina ovvero primaveril-equinoziale. Anche se nell’icona da noi considerata (8), uno yantra in rame di recente creazione e di provenienza tamilica, per
motivi d’aggiornamento astrale il P.V. trovasi visibilmente all’inizio dei
Pesci. In questo caso il nume sta al
centro dello Zodiaco Solare (Rāśicakra) quale immagine
dell’Unità Divina, impugnando perciò l’Ascia (Paraśu) come emblema
dell’Asse Zenitale (9).
Diversamente, il Muride non riceve alcuna collocazione, gli sta
semplicemente di fianco.
Altre volte il Ratto gli fa invece
alternativamente da cavalcatura (muṣiika-vāhana),
com’è il caso ad es. d’un bassorilievo di Talakkadu (Tempio di Vaidyeśvara),
in Karṇātaka. Occorre tener conto tuttavia che nella forma Ᾱkhuratha (10) la
semplice cavalcatura diventa una sorta di cocchiere, benché la cosa non sia
messa troppo in evidenza. Talora del
resto nell’iconografia il Topo è un Ratto Gigante – il che accade pure, abbiamo
visto, col muṣika-vāhana – reggente una
sorta d’ornato baldacchino su cui è posato un raffinato cuscino e su questo, a
mo’ di pascià, è seduto in proporzioni adeguate Gaṇapati (11). Altre volte si vuol per contro metter in evidenza il contrasto fra la
minutezza del Topo e l’ampiezza dell’Elefante in quanto allusivi
rispettivamente alla non- separazione, a livello microcosmico e macrocosmico,
dell’infinitesimale e dell’indefinito.
Entrambi una metafora, è chiaro, dell’Infinito che è incommensurabile.
continua
Note
1.
Cfr. V.R.
Gandhi, Jaina Philosophy (testo d’una conferenza), on line.
2.
Secondo gli
ulteriori dettaglî della storia forniti dal Gandhi l’uomo in pericolo di morte
si sarebbe cacciato in quel guaio dopo esser fuggito ai predoni, mentre con
altri stava attraversando una foresta piena di bestie selvagge. Ciascuno della comitiva di cui faceva parte
alla vista dei ladri era scappato in ogni direzione. Onde il pozzo risultava l’unico mezzo per
scampare alla morte da parte d’uno di essi, che fuggendo era incappato
ulteriormente in un pericoloso elefante.
3.
Le
spiegazioni simboliche del padre del Gandhi non concordano appieno con le
nostre, piuttosto induisteggianti.
Ossia, ferma restando l’interpretazione della Foresta come immagine del
Mondo e del Grande Elefante quale contrassegno della Morte, il Pozzo è stato da
lui diversamente interpretato come la Vita; donde le Quattro Serpi fungerebbero
da allegorie della Collera, della Vanità, dell’Inganno e dell’Avidità e la Quinta
sarebbe invece il piú basso livello dell’Esistenza. Ma il livello maggiormente basso non è
costituito appunto dal Fondo degl’Inferi?
Le Api sarebbero i Sensi ovvero, specifichiamo noi, l’umanità che vive a
livello sensuale e le Gocce di Miele i limitati Piaceri che ne derivano. Insomma, si capisce che dietro
l’eticizzazione di tipo vaiśya del simbolo (un po’ com’è avvenuto fra i
buddisti, presso i quali ad ogni modo la sentimentalizzazione dottrinale dello
stesso, in senso kṣatriya, è prevalsa), traspaiono motivi
pagani arcaici di matrice proto-induista se non addirittura pre-induista.
4.
Kāla, personifcazione del Cielo come
Tempo Corruttore, in India ha la funzione del Diavolo nel Cattolicesimo.
5.
Lo Zodiaco
cinese si basa in realtà sul ciclo duodecennale di Giove. Ecco perché considera
l'anno e non il mese, peraltro un anno irregolare, come appunto quello
determinato dal passaggio di Giove in un dato Segno. Oggidì non vi è più
corrispondenza fra i passaggî del pianeta e i 12 Numinosi Animali, ma sicuramente
dovette esservi in origine.
6.
Domicilio diurno
del Sole.
7.
Esiste
nell’epica hindu una parallela versione che riferisce di topi bianchi e neri
scorazzanti attorno al malcapitato che sta per cadere nel pozzo ed è trattenuto
su solamente da alcune radici contorte.
Cfr. K.Minýas, Il Mahabharata di Peter Brook. La versione
cinematografica e quella televisiva- Il Giardino delle Esperidi (11-05-06), on line, p.17. I Topi sembrano essere in quel caso
gl’innumerevoli Cicli di Vita e Morte che si susseguono senza posa, oltre i
quali il saggio deve assolutamente portarsi al fine di cogliere il vero senso
dell’esistere. Cambiano i dettaglî della
metafora, ma in sostanza la storia non varia di molto, a parte la diversa
sfumatura di pensiero propria del pensiero induista rispetto a quello
jainista. Il punto di vista hindu è eminentemente
sacerdotale, quello jaina prevalentemente mercantile. A mezzo sta il buddismo col suo atteggiamento
tendenzialmente aristocratico (per questo ha assimilato l’ascetismo shivaita di
tipo kashmiro), sebbene sotto certi altri aspetti si mostri piú popolare del
jainismo medesimo (ad es. attraverso i culti tantrici himalayani), il quale
d’altronde cela in sé un’origine molto elevata.
Secondo quanto mostra l’ossequio della Non-violenza (Ahiṁsā), un
atteggiamento ch’era proprio in principio non dei Vaiśya bensí degli Haṁsa, la sovracasta
primordiale.
8.
S.Sivapriyananda, Astrology and
Religion in Indian Art- Abhinav P., N.Delhi 1990, tav.67 (replicata in
copertina a retro).
9.
L’Ascia ad
ogni modo ha in origine un significato polare, non zenitale, ed essendo un
contrassegno dell’Axis Mundi è connessa simultaneamente coll’origine
medesima del dio. Infatti Gaṇeśa non è che una
variante dell’Īś, lo ‘Spirito
Supremo’, chiamato sino ai tempi odierni dai popoli paleosiberiani Ys. Il dio dalla testa elefantina, col suo color
bianco, non è che una variante posteriore del mastodontico Elefante Bianco a 4
Zanne nato secondo il mito alla fine del II Ciclo Avatarico durante il
Rimestamento dell’Oceano di Latte: uno sconvolgimento naturale che colpí
l’Artide. In relazione tuttavia al
Centro dello Zodiaco rappresenta lo Zenit, non il Polo Nord, che è già indicato
nell’ambito del grafico annuale – per trasposizione del simbolo tropicale – dal
Solstizio Invernale, allo stesso modo come il Solstizio Estivo rimanda al Polo
Sud. Cosí interpretato Ganeśa funge
perciò da equivalente di Indra, in quanto Signore delle Piogge, ossia
del suo alter-ego Airāvata/ Airāvaṇa (lett. ‘Sorto
dall’Oceano’). Quest’ultimo rappresenta
verosimilmente una trasformazione a 2 zanne del suddetto Elefante Bianco, un
tempo alato essendo un simbolo aereo e non acqueo, secondo quanto evidenzia
indirettamente a Bodhgayā un
bassorilievo di epoca śûnga (I sec. a.C.). Cfr. K.S.
Srivastava, The Elephant in Early Indian Art- Motilal B., Delhi 1989,
tav.X, fig.34. Non meno del suo
vetusto prototipo la cavalcatura del Re degli Dei si è legata in tempi
relativamente tardivi (forse mesolitici) non tanto al Cielo in senso
eterico-spaziale (senso che si è perduto via via man mano che il pachiderma
perdeva la dimensione di gigantezza mastodontica), quanto piuttosto alle Acque
Celesti intese come ratna (‘tesoro’) donato agli uomini dalla Divinità (ibîd.,
Cap.IV, p.39 sgg). In parole
povere ai grossi nuvolosi scuri d’origine monsonica, forieri di frequenti
acquazzoni, fertilizzatori del suolo.
Ovviamente, in India come in Grecia, le Piogge sottintendevano
cosmologicamente i Raggî Zodiacali ed ontolgicamente i Raggî Divini in funzione
creativo-dissolutiva. Le Acque Celesti
avevano prima invece un valore puramente virtuale, in rapporto alle Forme
Archetipali, e probabilmente erano connesse semplicemente alla cosmicizzazione
dei 2 Cicli Semestrali di crescita e decrescita della vegetazione. Il simbolismo latino di Giano, figura
assimilabile per molti versi – persino etimologicamente – a quella indiana di Gaṇeśa, lo conferma. Ancor oggi infatti, nonostante
l’assimilazione di Iānus ai 2 Giovanni della
tradizione giudaico-cristiana, l’elemento fondamentale di cotale figura
perdurato nel calendario e sicuramente di maggior arcaicità è l’associazione
col Doppio Emiciclo Annuale (essendo le due ‘Porte’ o ‘Facce’ del nume
iconologicamente rivolte in opposte direzioni).
L’attribuzione al dio del titolo di ‘Signore dei Solstizî e degli
Equinozî’, con la conseguente trasformazione delle 2 Porte/ Facce in 4, è
pertanto da considerare posteriore, a meno d’intendere la cosa in relazione
alla periodicità quaternaria dell’Età Aurea (scr. Satyayuga). Il ‘Mostro del Mare’ (gr. Kétos)
attribuitogli quale veicolo e dal Kerenyi chiamato volgarmente ‘Delfino’,
raffigura in realtà un cetaceo composito dal significato oltremodo simbolico
come quello che compare nell’inno omerico ad Apollo Delfinio e corrisponde
perciò a grandi linee alla Balena (si esamini per una comparazione efficace il
possibile alter-ego vetero-testamentario di Giona); mammifero acquatico il
quale nella tradizione estremo orientale ha ricevuto per la sua mastodoncità
l’appellativo onorario di ‘Pesce Elefante’, l’Elefante rappresentando a sua
volta un doppione di tale emblema bipolare e celestiale, non meno della
Tartaruga. È durante il ‘Ciclo della
Tartaruga’, evidentemente votato ad una ricezione duale dell’Universo, che
nasce appunto il mito dell’Elefante Bianco.
10. A.Getty, Gaṇeśa. A Monograph on the Elephant-Faced God- Munshiram M., N.Delhi 1971 (ed.or. Clarendon P.,
Oxford 1936), C.II, p.13. Nei dipinti invece
il vāhana è ritratto nel mezzo d’una bandiera di
color rosso. Da notare che il termine ākhu si riferisce anche
alle talpe, tant’è ch’è documentato nel culto pure un Ᾱkhurāja (‘Re delle Talpe’). Vedi M. & J. Stutley, Dizionario
dell’Induismo- Ubaldini, Roma 1980 (ed.or. A Dictionary of Hinduism-
Routledge & Kegan, Londra 1977), s.v.ᾹKHURᾹJA, p.15, col.a.
11. Get., op.cit., p.17, fig.2.
Nessun commento:
Posta un commento