mercoledì 18 gennaio 2017

IL CARRO DELL'ESISTENZA, MOSSO DAL TEMPO RODITORE




    di Alfio Pegaso 




a)   I Due Topi d’una scena pittorica jaina

      I Jaina, c’insegna il Gandhi (1), hanno la buona abitudine di dipingere scene edificanti per il loro culto sulle pareti delle sale d’accoglienza che essi costruiscono qua e là ove il jainismo si è diffuso per il tramite dei loro monaci itineranti.  Tali dipinti costituiscono un’illustrazione didascalica a livello visivo dei sermoni allegorici che i maestri sono soliti rivolgere loro.  In una di tali pitture è rappresentato uno speciale apologo concernente un terribile elefante ai bordi d’un pauroso pozzo.  Due topi, uno bianco e l’altro nero, vengono raffigurati nell’atto di rosicchiare il tronco d’un albero che con un suo ramo sostiene un uomo sospeso nel mezzo di detto pozzo.  L’enorme elefante è intento a scuotere l’albero con la sua ampia proboscide, cercando cosí di far scendere a terra l’uomo che evidentemente vorrebbe azzannare.  Lungo le pareti del pozzo, tuttavia, quattro serpenti minacciano il malcapitato sibilando paurosamente e stanno quasi per morderlo; intanto un quinto serpente, assai piú grosso, si erge dal fondo del baratro con la sua spaventosa bocca spalancata.  Su un altro ramo dell’albero, sopra la testa dell’uomo, s’intravede un favo di miele con uno sciame d’api che ne sta a guardia.  Gli sforzi dell’elefante hanno tuttavia avuto l’effetto indiretto, scuotendo la pianta, di far colare giú il miele.  Un monaco biancovestito (śvetāmbara) è ritto su un lato del pozzo, dalla parte opposta a quella del pachiderma (da cui significativamente non sembra temere alcunché), come per aiutare il poveretto sospeso nel vuoto ad affrontare al meglio tutti i pericoli incombenti.  Ma, spiega il Gandhi riferendosi all’ampliamento della scena fornitogli oralmente dal padre su richiesta del figlio, quell’uomo rifiuta di farsi aiutare (2); perché, essendo la sua presa salda, non teme né le serpi né l’elefante e preferisce al momento godere il nettare che scorre nella sua bocca, essendo peraltro convinto che i topi ci mettano un bel po’ a rodere la pianta.
      Non è nostro compito delineare ivi una precisa interpretazione dell’apologo, che a grosso modo ritrae comunque la situazione umana prima d’aver raggiunto la condizioni spirituale di salvazione.  Forse il Nettare gocciolante è un’immagine dei pochi piaceri dell’esistenza quali l’amore e le Api sono gli uomini intenti a produrlo, ovvero i sapienti; probabilmente la Giungla è il Divenire, l’Elefante è la Morte, il Pozzo gl’Inferi ed i Cinque Serpenti i fantasmi dell’Aldilà o per meglio dire i Grandi Elementi (scr.Mahābhūta) che condizionano il cosmo.  Impossibile tuttavia non metter in relazione la coppia di roditori con le due periodiche fasi temporali: rispettivamente, il Ciclo Ascendente e il Ciclo Discendente dell’Anno Sacro, a partire ovviamente dai Solstizî.  Sebbene in ambito jaina, a differenza che in quello hindu, l’accento sia posto in campo etico anziché rituale (3).  Onde i Due Topi sarebbero piú correttamente da interpretare come le Due Metà del mese lunare indiano, vale a dire la quindicina chiara e l’oscura.  Il topo chiaro per tal associazione emblematica con la fase di crescita mensile ed annuale è divenuto alteresí un simbolo di prosperità, viceversa è avvenuto con l’equivalente roditore di color scuro.  Perché mai, ci si potrebbe però chiedere, il Tempo (Kāla)(4) è stato immaginato nelle fattezze d’un Muride?
      Il motivo è semplice.  Esso opera consumando tutti gli esseri, esattamente come fa il topo che rode dappertutto.  La corrosione temporale è lenta ma inevitabile.  Per questo è stata paragonata giustamente all’azione devastatrice prodotta a poco a poco ma inesorabilmente dal suddetto roditore.  Le derrate alimentari, ed in particolare i granai, nelle società pre-industriali venivano infatti prese di mira da parte dei piccoli denti sempre in crescita del topo, avendo tale bestiola sempre bisogno secondo quanto fa ogni roditore di rosicchiare in continuazione per limarli.  Nessun animale quindi piú del Topo, a causa della propria insaziabile voracità, può rimandare emblematicamente all’aspetto distruttore del Tempo.  Il rimando all’aspetto creatore di Kāla è maggiormente difficile da capire per noi occidentali, abituati come siamo a disprezzare questo socievole animaletto, nonostante le fortune avute dal personaggio disneyano di Mickey Mouse (Topolino) nei cartoon a partire dagli Anni Trenta o piú tardi da quello nostrano di Topo Gigio nel campo dei burattini.  Esso si collega al fatto che nell’oroscopo cinese (5) il Topo equivale pressappoco all’Ariete (6) dell’Astrologia europea, vale a dire incarna il Raggio Solare, capace di penetrare ovunque.  Con tutta la simbologia annessa, naturalmente.  In altre parole, potremmo asserire che i 2 Topi costituiscono un’immagine del susseguirsi alternativo della Luce e delle Tenebre, tenendo conto però che ogni apparente opposizione su un piano piú profondo raffigura immancabilmente una complementarietà.  Ora vedremo quali sviluppi ha avuto tale arcaico concetto all’interno prima dell’induismo e poi del buddhismo.  L’allegoria jainista appena illustrata (7) valga quale paradigma generale per la comprensione del simbolo, prima ancora che per una ricognizione limitatamente di carattere storico-iconologico.



b)   Il Sorcio veicolo di Rudra, Gaeśa e Kubera

      Il Mua (Muika) è posto in alcune circostanze accanto a Gaeśa/ Gaapati, lett. ‘il ‘Signore dei Genî’; precisamente sul lato orientale, in modo tale da svolgere una funzione arietina ovvero primaveril-equinoziale.  Anche se nell’icona da noi considerata (8), uno yantra in rame di recente creazione e di provenienza tamilica, per motivi d’aggiornamento astrale il P.V. trovasi visibilmente all’inizio dei Pesci.  In questo caso il nume sta al centro dello Zodiaco Solare (Rāśicakra) quale immagine dell’Unità Divina, impugnando perciò l’Ascia (Paraśu) come emblema dell’Asse Zenitale (9).  Diversamente, il Muride non riceve alcuna collocazione, gli sta semplicemente di fianco.   
      Altre volte il Ratto gli fa invece alternativamente da cavalcatura (muiika-vāhana), com’è il caso ad es. d’un bassorilievo di Talakkadu (Tempio di Vaidyeśvara), in Karātaka.  Occorre tener conto tuttavia che nella forma khuratha (10) la semplice cavalcatura diventa una sorta di cocchiere, benché la cosa non sia messa troppo in evidenza.  Talora del resto nell’iconografia il Topo è un Ratto Gigante – il che accade pure, abbiamo visto, col muika-vāhana – reggente una sorta d’ornato baldacchino su cui è posato un raffinato cuscino e su questo, a mo’ di pascià, è seduto in proporzioni adeguate Gaapati (11).  Altre volte si vuol per  contro metter in evidenza il contrasto fra la minutezza del Topo e l’ampiezza dell’Elefante in quanto allusivi rispettivamente alla non- separazione, a livello microcosmico e macrocosmico, dell’infinitesimale e dell’indefinito.  Entrambi una metafora, è chiaro, dell’Infinito che è incommensurabile.


 continua


Note






1.            Cfr. V.R. Gandhi, Jaina Philosophy (testo d’una conferenza), on line.
2.            Secondo gli ulteriori dettaglî della storia forniti dal Gandhi l’uomo in pericolo di morte si sarebbe cacciato in quel guaio dopo esser fuggito ai predoni, mentre con altri stava attraversando una foresta piena di bestie selvagge.  Ciascuno della comitiva di cui faceva parte alla vista dei ladri era scappato in ogni direzione.  Onde il pozzo risultava l’unico mezzo per scampare alla morte da parte d’uno di essi, che fuggendo era incappato ulteriormente in un pericoloso elefante.
3.            Le spiegazioni simboliche del padre del Gandhi non concordano appieno con le nostre, piuttosto induisteggianti.  Ossia, ferma restando l’interpretazione della Foresta come immagine del Mondo e del Grande Elefante quale contrassegno della Morte, il Pozzo è stato da lui diversamente interpretato come la Vita; donde le Quattro Serpi fungerebbero da allegorie della Collera, della Vanità, dell’Inganno e dell’Avidità e la Quinta sarebbe invece il piú basso livello dell’Esistenza.  Ma il livello maggiormente basso non è costituito appunto dal Fondo degl’Inferi?  Le Api sarebbero i Sensi ovvero, specifichiamo noi, l’umanità che vive a livello sensuale e le Gocce di Miele i limitati Piaceri che ne derivano.  Insomma, si capisce che dietro l’eticizzazione di tipo vaiśya del simbolo (un po’ com’è avvenuto fra i buddisti, presso i quali ad ogni modo la sentimentalizzazione dottrinale dello stesso, in senso katriya, è prevalsa), traspaiono motivi pagani arcaici di matrice proto-induista se non addirittura pre-induista.
4.            Kāla, personifcazione del Cielo come Tempo Corruttore, in India ha la funzione del Diavolo nel Cattolicesimo.
5.            Lo Zodiaco cinese si basa in realtà sul ciclo duodecennale di Giove. Ecco perché considera l'anno e non il mese, peraltro un anno irregolare, come appunto quello determinato dal passaggio di Giove in un dato Segno. Oggidì non vi è più corrispondenza fra i passaggî del pianeta e i 12 Numinosi Animali, ma sicuramente dovette esservi in origine.
6.            Domicilio diurno del Sole.
7.            Esiste nell’epica hindu una parallela versione che riferisce di topi bianchi e neri scorazzanti attorno al malcapitato che sta per cadere nel pozzo ed è trattenuto su solamente da alcune radici contorte.  Cfr. K.Minýas, Il Mahabharata di Peter Brook. La versione cinematografica e quella televisiva- Il Giardino delle Esperidi  (11-05-06), on line, p.17.  I Topi sembrano essere in quel caso gl’innumerevoli Cicli di Vita e Morte che si susseguono senza posa, oltre i quali il saggio deve assolutamente portarsi al fine di cogliere il vero senso dell’esistere.  Cambiano i dettaglî della metafora, ma in sostanza la storia non varia di molto, a parte la diversa sfumatura di pensiero propria del pensiero induista rispetto a quello jainista.  Il punto di vista hindu è eminentemente sacerdotale, quello jaina prevalentemente mercantile.  A mezzo sta il buddismo col suo atteggiamento tendenzialmente aristocratico (per questo ha assimilato l’ascetismo shivaita di tipo kashmiro), sebbene sotto certi altri aspetti si mostri piú popolare del jainismo medesimo (ad es. attraverso i culti tantrici himalayani), il quale d’altronde cela in sé un’origine molto elevata.  Secondo quanto mostra l’ossequio della Non-violenza (Ahisā), un atteggiamento ch’era proprio in principio non dei Vaiśya bensí degli Hasa, la sovracasta primordiale.
8.            S.Sivapriyananda, Astrology and Religion in Indian Art- Abhinav P., N.Delhi 1990, tav.67 (replicata in copertina a retro).
9.            L’Ascia ad ogni modo ha in origine un significato polare, non zenitale, ed essendo un contrassegno dell’Axis Mundi è connessa simultaneamente coll’origine medesima del dio.  Infatti Gaeśa non è che una variante dell’Īś, lo ‘Spirito Supremo’, chiamato sino ai tempi odierni dai popoli paleosiberiani Ys.  Il dio dalla testa elefantina, col suo color bianco, non è che una variante posteriore del mastodontico Elefante Bianco a 4 Zanne nato secondo il mito alla fine del II Ciclo Avatarico durante il Rimestamento dell’Oceano di Latte: uno sconvolgimento naturale che colpí l’Artide.  In relazione tuttavia al Centro dello Zodiaco rappresenta lo Zenit, non il Polo Nord, che è già indicato nell’ambito del grafico annuale – per trasposizione del simbolo tropicale – dal Solstizio Invernale, allo stesso modo come il Solstizio Estivo rimanda al Polo Sud.  Cosí interpretato Ganeśa funge perciò da equivalente di Indra, in quanto Signore delle Piogge, ossia del suo alter-ego Airāvata/ Airāvaa (lett. ‘Sorto dall’Oceano’).  Quest’ultimo rappresenta verosimilmente una trasformazione a 2 zanne del suddetto Elefante Bianco, un tempo alato essendo un simbolo aereo e non acqueo, secondo quanto evidenzia indirettamente a Bodhgayā un bassorilievo di epoca śûnga (I sec. a.C.).  Cfr. K.S. Srivastava, The Elephant in Early Indian Art- Motilal B., Delhi 1989, tav.X, fig.34.  Non meno del suo vetusto prototipo la cavalcatura del Re degli Dei si è legata in tempi relativamente tardivi (forse mesolitici) non tanto al Cielo in senso eterico-spaziale (senso che si è perduto via via man mano che il pachiderma perdeva la dimensione di gigantezza mastodontica), quanto piuttosto alle Acque Celesti intese come ratna (‘tesoro’) donato agli uomini dalla Divinità (ibîd., Cap.IV, p.39 sgg).  In parole povere ai grossi nuvolosi scuri d’origine monsonica, forieri di frequenti acquazzoni, fertilizzatori del suolo.  Ovviamente, in India come in Grecia, le Piogge sottintendevano cosmologicamente i Raggî Zodiacali ed ontolgicamente i Raggî Divini in funzione creativo-dissolutiva.  Le Acque Celesti avevano prima invece un valore puramente virtuale, in rapporto alle Forme Archetipali, e probabilmente erano connesse semplicemente alla cosmicizzazione dei 2 Cicli Semestrali di crescita e decrescita della vegetazione.  Il simbolismo latino di Giano, figura assimilabile per molti versi – persino etimologicamente – a quella indiana di Gaa, lo conferma.  Ancor oggi infatti, nonostante l’assimilazione di Iānus ai 2 Giovanni della tradizione giudaico-cristiana, l’elemento fondamentale di cotale figura perdurato nel calendario e sicuramente di maggior arcaicità è l’associazione col Doppio Emiciclo Annuale (essendo le due ‘Porte’ o ‘Facce’ del nume iconologicamente rivolte in opposte direzioni).  L’attribuzione al dio del titolo di ‘Signore dei Solstizî e degli Equinozî’, con la conseguente trasformazione delle 2 Porte/ Facce in 4, è pertanto da considerare posteriore, a meno d’intendere la cosa in relazione alla periodicità quaternaria dell’Età Aurea (scr. Satyayuga).  Il ‘Mostro del Mare’ (gr. Kétos) attribuitogli quale veicolo e dal Kerenyi chiamato volgarmente ‘Delfino’, raffigura in realtà un cetaceo composito dal significato oltremodo simbolico come quello che compare nell’inno omerico ad Apollo Delfinio e corrisponde perciò a grandi linee alla Balena (si esamini per una comparazione efficace il possibile alter-ego vetero-testamentario di Giona); mammifero acquatico il quale nella tradizione estremo orientale ha ricevuto per la sua mastodoncità l’appellativo onorario di ‘Pesce Elefante’, l’Elefante rappresentando a sua volta un doppione di tale emblema bipolare e celestiale, non meno della Tartaruga.  È durante il ‘Ciclo della Tartaruga’, evidentemente votato ad una ricezione duale dell’Universo, che nasce appunto il mito dell’Elefante Bianco.
10.       A.Getty, Gaeśa. A Monograph on the Elephant-Faced God- Munshiram M., N.Delhi 1971 (ed.or. Clarendon P., Oxford 1936), C.II, p.13.  Nei dipinti invece il vāhana è ritratto nel mezzo d’una bandiera di color rosso.   Da notare che il termine ākhu si riferisce anche alle talpe, tant’è ch’è documentato nel culto pure un khurāja (‘Re delle Talpe’).  Vedi M. & J. Stutley, Dizionario dell’Induismo- Ubaldini, Roma 1980 (ed.or. A Dictionary of Hinduism- Routledge & Kegan, Londra 1977), s.v.KHURJA, p.15, col.a.
11.      Get., op.cit., p.17, fig.2.

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